I LAVORI DELLE DONNE 
      Marina Piazza 
        
        
        
        
      Partiamo  da queste affermazioni: oggi le donne sono più istruite degli uomini, lavorano  molto (soprattutto al centro-nord), sono al centro del lavoro di riproduzione.  Non sto parlando dell’entità del lavoro domestico non pagato che - pur essendo  svalutato e invisibile, e comunque appoggiato fortemente sulla catena globale  della cura, rappresentata dalle donne migranti –  ha anche un portato economico fortissimo. Sto parlando di tutto  il lavoro di tenuta della vita quotidiana e della vita sociale: raccordo tra  famiglia e istituzioni del welfare (quando e dove ci sono e proprio perchè sono  scarsi i servizi necessità di maggior lavoro di intelligenza per cercarli e  raccordali alle esigenze dei membri dipendenti della famiglia: piccoli e  anziani), trasporti, mobilità ecc.  
        Non possono più essere  considerate soggetti residuali, entrate tardi nel mercato del lavoro,  eventualmente da proteggere e tutelare. Direi che sono al centro dei nodi  strategici del funzionamento del Paese. 
        Sono  presenti e attive , con la radicata consapevolezza di volersi giocare la loro  vita su entrambi i piani: della realizazione di sè nel campo professionale e  nel campo della vita affettiva, personale e familiare. 
        Se  prendiamo il campo del lavoro  professionale-  e lo consideriamo nella sua astrazione -oggi le donne sono in assoluta  posizione di concorrenza con gli uomini per il grado di qualificazione e  istruzione e consapevolezza del proprio valore. Anche il grado di segregazione  formativa va attenuandosi, pur esendo ancora presente, Quello che bisogna  mettere a fuoco in questo campo è ancora la somma dei pregiudizi ostili che  impediscono alle donne di accedere a posizioni decisionali, il riconoscimento  meritocratico ecc. ecc. Sono strascichi di un passato anche recente, molto più  visibili nel nostro paese che in altri Paesi europei. 
        La  questione si complica se diamo per buona l’affermazione che oggi le donne (non  tutte, la maggioranza) vogliono esserci sia nel mercato del lavoro che  nell’attività di cura. Un principio di libertà (e/e, non o/o) che il mercato  dificilmente accetta, riconoscendone sì astrattamente le competenze, ma non  essendo disponibile ad accettare le loro vite, rese complesse dall’attività di  cura e di lavoro domestico. (che in Italia è per il 77% sulle loro spalle). 
        Nonostante  i cambiamenti, il modello ancora prioritario nel mercato del lavoro è attestato  su un modello male oriented, funzionale al modello fordista. 
        Nel  modello male oriented, la richiesta  di disponibilità di tempo e di spazio  implica anche una carriera lineare, mentre appunto le donne  incorrono più degli uomini nell’opting  out, nel “chiamarsi fuori” in determinate fasi del loro corso di vita. 
        Da  qui deriva il fatto che lavorano più a part-time, che lavorano più con contratti  a tempo determinato, in lavori non standard (soprattutto le giovani) spesso  senza le minime tutele di base, che sono pagate di meno. 
        Ma  questo è un modello obsoleto, basato su una divisione dei ruoli che non ha più  ragione di esistere, che porta a registrare i buchi neri che ci sono non nella  questione delle donne o nella partecipazione delle donne, ma nella relazione  tra uomini e donne nella società.  
        Io  credo che le donne non vogliono affatto rinunciare al piacere di essere nel  mondo del lavoro, ma nello stesso tempo rivendicano non tanto il diritto, ma  soprattutto il piacere e la responsabilità che hanno nei confronti di chi hanno  messo al mondo. Dunque è il rovesciamento del modello che è in discussione, non  il fatto di volersi inserire nelle pieghe “compassionevoli” che a volte –  peraltro raramente - la società e le aziende  propongono loro. 
        Non  si presentano come vittime lamentose, ma come soggetti che mettono in  discussione un modello lavorativo fordista, ritagliato e pensato per il maschio  adulto. 
        Poichè  è da più di trent’anni che le donne “ci sono”, la loro abilità a destreggiarsi  tra i due campi viene facilmente riconosciuta, anche dagli uomini. Acrobate,  funambole, equilibriste,giocoliere: sono termini ricorrenti. Sono queste le  loro modalità conciliative perchè se non si interviene sulla cultura della  società e delle organizzazioni, le misure di conciliazione restano individuali.. 
        Si  potrebbe intervenire su vari piani:  
        agendo  per ridefinire le relazioni e le strategie di donne e uomini all’interno della  famiglia (attraverso campagne di mobilitazione culturale,  campagne di sensibilizzazione nelle scuole, attraverso  una risistematizzazione legislativa dei congedi parentali (maggiore indennità,  possibilità di usufruire dei congedi a part time), attraverso l’introduzione  del congedo di paternità; 
        agendo  sui supporti esterni alla famiglia, con un fortissimo investimento sui servizi,  pubblici e privati, a prezzi contenuti e orari prolungati e flessibili; 
        agendo  sull’organizzazione del lavoro, attraverso orari flessibili e personalizzati,  depenalizzazione del part time, supporti aggiuntivi (nidi aziendali, benefit  diversificati). 
        Ma  niente (o quasi niente) di tutto questo accade. 
    Allora  io credo che bisogna rovesciare l’ottica. Non guardare loro, le donne, nè con  compassione nè con cinica ammirazione: partendo da loro guardare il mondo del  lavoro, con le sue leggi scritte e non scritte, con la sua inutile e obsoleta  rigidità, e guardare l’intera società, che mentre si proclama familista, mentre  lamenta il futuro incerto che si prospetta per un paese sempre più abitato da  vecchi e spopolato di bambini, si permette di dimenticarsi di politiche  lavorative, sociali e familiari degne di questo nome. 
      
    3-10-2010  |